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Sezione Letteratura

La ginestra o il fiore del deserto

Parafrasi e analisi della poesia

(Canti, XXXIV)

Giacomo Leopardi

· Pubblicato · Aggiornato ·

La ginestra, o il fiore del deserto, viene composta da Leopardi a Torre del Greco (Napoli) nella primavera del 1836 (ultimo anno di vita del poeta). Già nella citazione emerge la polemica contro le idee spiritualistiche dell’epoca e le utopie progressiste basate sulla concezione ottimistica nei lumi e sulla fiducia cieca nel progresso umano, ignorando la tragica condizione dell’uomo di fragilità e di impotenza.


TESTO

PARAFRASI

"E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce" (Giovanni, III, 19).

Nell'epigrafe Leopardi cita questo versetto evangelico per alludere al fatto che gli uomini preferiscono affidarsi a cose false ma consolatorie (le tenebre) piuttosto che a cose vere ma dolorose (la luce).

[1] Qui su l'arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null'altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de' mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d'afflitte fortune ognor compagna.
[17] Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d'armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de' potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l'altero monte
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
[33] una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d'esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all'amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell'uman seme,
cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell'umana gente
le magnifiche sorti e progressive .

[1] Qui sulla brulla pendice (arida schiena - personificazione) riarsa del monte terrificante (formidabil, latinismo) [e] distruttore (sterminator) Vesuvio (Vesevo, latinismo), che nessun altro arbusto o fiore rallegra (null'altro allegra arbor né fiore) spargi intorno i tuoi cespugli (cespi) solitari, [o] odorosa ginestra (odorata ginestraapostrofe e personificazione), appagata (contenta) dei deserti. Ti ho visto abbellire con i tuoi rami (steli) anche (anco) i borghi abbandonati (l'erme contrade) che circondano (cingon) la città (la cittade - si riferisce a Roma) che (la qual) fu un tempo signora (donna - metafora) degli uomini (mortali), e sembra che (par che) [le contrade] con il loro aspetto solenne (grave) e silenzioso (taciturno) testimonino (faccian fede) e ricordino al viandante (passeggero) l’ impero perduto (perduto impero).
Ti rivedo ora in questo suolo [tu che sei] amante di luoghi (lochi - latinismo) tristi e abbandonati da tutti (dal mondo), e sempre (ognor) compagna di destini infelici (d'afflitte fortune).
[17] Questi campi cosparsi di ceneri sterili (infeconde) e ricoperti dalla lava solidificata (impietrata), che risuona sotto i passi del viandante (peregrin); dove il serpente (la serpe) si annida e si contorce al sole, e dove il coniglio torna alla consueta (al noto) tana (covil) sotterranea (cavernoso); furono (fur...fur...fur...- anafora) città ridenti (liete) e (e… e… e - polisindeto) coltivazioni (colti), e biondeggiarono di spighe (spiche),  e risuonarono di muggiti di mandrie (muggito d'armenti); furono  giardini e palazzi (palagi), soggiorno (ospizio) gradito per gli ozi dei potenti; e furono città famose che il monte (monte - Vesuvio) superbo (l'altero - personificazione), ricoprì (oppresse) dei (coi) suoi torrenti [di lava], insieme con i loro abitanti, lanciando fiamme (fulminando) dalla sua bocca di fuoco (ignea bocca - personificazione). Ora intorno
[33] un’unica (una) distruzione (ruina) avvolge (involve) tutto, [lì] dove tu stai (siedi), o fiore nobile (o fior gentile apostrofe e anastrofe) e, quasi compiangendo (commiserando) le disgrazie (danni) degli altri (altrui), emani un profumo dolcissimo verso il cielo che consola questo luogo desolato (deserto). Venga in questi luoghi (piagge) colui che è solito (ha in uso) elogiare (esaltar con lode) la nostra condizione (il nostro stato) e guardi quanto il nostro genere umano (gener nostro) è caro (in cura) alla natura amorevole (amante natura - sarcastico - personificazione). E qui potrà anche (anco) giudicare (estimar) correttamente (con giusta misura) la potenza (possanza) della stirpe umana (uman seme - metafora), che (cui) la crudele natura (dura nutrice - personificazione), quando l’uomo (ov'ei) meno se lo aspetta (men teme), con un leggero movimento (con lieve moto) in un momento in parte distrugge (annulla) e può anche (ancor) con scosse (moti) un po’ meno lievi annientare (annichilare) del tutto di colpo (subitamente).
In questi luoghi (rive) sono raffigurate (dipinte) le sorti splendide (magnifiche) e in continuo progresso (progressive) dell’umanità (umana gente).

[52] Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch'a ludibrio talora
t'abbian fra se. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch'io sappia che obblio
preme chi troppo all'età propria increbbe.
[70] Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell'aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

[52] Qui (qui…qui - anafora) guarda (mira) e qui specchiati (ti specchia), o secolo (si riferisce all’800) superbo e sciocco (secol superbo e sciocco - apostrofe e personificazione), che hai abbandonato la via (il calle) percorsa fino (insino) allora avanzando (innanti) dal pensiero risorto (risorto pensier – risorto dall’oscurità del medioevo), e rivolti i [tuoi] passi indietro (volti addietro i passi), ti vanti di tornare indietro (del ritornar) e lo chiami progresso (procedere il chiami). Tutti gli uomini d'ingegno (gl'ingegni tutti), di cui la sorte malvagia (sorte rea) ti fece padre adulano (vanno adulando) il tuo comportamento infantile (tuo pargoleggiar), benché (ancora ch'), nel loro intimo (fra se), talora ti scherniscano (ludibrio). Io non morirò (scenderò sottoterra) macchiato di una simile vergogna (con tal vergogna); ma piuttosto [prima di morire] avrò mostrato (mostrato avrò) per quanto possibile (quanto si possa) esplicito (aperto) il disprezzo che è racchiuso (si serra) nel mio animo (petto) [verso] di te: benché io sappia che l’oblio colpisce (preme, latinismo sta per avvolge, ricopre) chi non piacque (troppo…increbbe) ai propri contemporanei (età propria – al proprio tempo).
[70] Di questo male [l'essere dimenticato], che condivido con te [con il secolo] (che teco mi fia comune), fin da ora (finor) non mi curo affatto (assai…mi rido). Vai sognando la libertà, e contemporaneamente (a un tempo) vuoi di nuovo [che] il pensiero sia asservito (servo), in virtù del quale soltanto (sol per cui) risorgemmo in parte dalla barbarie [medioevale], e in nome del quale soltanto si progredisce (si cresce) in civiltà, la quale (che) sola guida i destini dei popoli (pubblici fati) verso il meglio (in meglio).
Tanto (così) ti spiacque la verità (il vero) sulla sorte dolorosa (aspra sorte) e sul luogo misero (depresso loco) che la natura ci assegnò (ci diè). Per questo volgesti vigliaccamente le spalle (il tergo) al pensiero (al lume – il lume della ragione) che lo rese palese (il fè palese); e, mentre fuggi (fuggitivo), chiami (appelli) vile chi lo segue (lui segue – riferito al pensiero, la luce), e solo nobile (magnanimo) colui che, prendendo in giro (schernendo) sé o gli altri, furbo (astuto) o folle, innalza (estolle) il livello degli uomini (mortal grado) fin sopra le stelle (astri).

[87] Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell'alma generoso ed alto,
non chiama sé stima
ricco d'or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest'orbe, promettendo in terra
a popoli che un'onda
di mar commosso, un fiato
d'aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge , che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
[111] Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, gli odii e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
[126] Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell'uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così qual fora in campo
cinto d'oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl'inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
[145] Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contra l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede quale star può quel
ch'ha in error la sede.

[87] Un uomo di umili condizioni (povero stato) ed infermo, che sia di animo (dell'alma) generoso e nobile (alto), non si () definisce (chiama) né considera (stima) di ricco d’oro o robusto (ricco d'or né gagliardo) e non ostenta ridicolmente (non fa risibil mostra) una vita splendida o un fisico sano (valente persona) fra (infra) la gente; ma si mostra (lascia parer), senza vergogna, bisognoso (mendico) di forza e di ricchezza (tesor) debole e  si dichiara (noma parlando) [tale] apertamente e valuta (fa stima) la sua condizione (sue cose) secondo verità (vero uguale).
Non credo davvero (non credo io già) che sia un uomo (animalesineddoche – il tutto per una parte) nobile (magnanimo),  ma stolto colui che , nato per morire (a perir), cresciuto tra i dolori (nutrito in pene), dice, sono fatto per essere felice (a goder son fatto) e riempie gli scritti di orgoglio disgustoso (fetido), promettendo meravigliosi destini e nuove felicità (eccelsi fati e nove felicità - riprende le magnifiche sorti e progressive del v.51), quali non solo (non pur) questa terra (quest'orbe)  ma il cielo intero (tutto) ignora, a popoli che un maremoto (un'onda di mar commosso – un’onda di mare agitato), una pestilenza (un fiato d'aura maligna – un alito di aria contaminata), un terremoto (sotterraneo crollo) distrugge in un modo tale () che a stento (a gran pena) rimane (avanza) il ricordo (rimembranza) di essi (di lor – riferito a popoli).
[111] E’ una nobile creatura (nobil natura) [invece] quella che osa (s'ardisce) guardare (a sollevar…gli occhi mortali ) in faccia (incontra - contro) il destino umano (al comun fato) e che con parole sincere (con franca lingua), senza togliere nulla al vero (nulla al ver detraendo), ammette (confessa) il male che ci è stato dato in sorte e la condizione (stato) umile (basso) e fragile (frale); è quella [la nobile creatura del v.111] che si mostra (mostra sé) grande e forte nelle sofferenze (soffrir), e non () aggiunge (accresce) alle sue miserie gli odi e le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, incolpando l'uomo del proprio dolore, ma dà la colpa a quella che è veramente colpevole (rea), che è madre degli uomini (de' mortali madre personificazione - si riferisce alla natura) quanto a generarli (è di parto), ma matrigna nella volontà (di voler matrigna – relativamente a ciò che vuole per loro).
[126] [Egli] chiama nemica (inimica) costei [la natura], e pensando che contro costei (incontro a questa) sia unita (congiunta), come realmente è (siccome è il vero), e organizzata (ordinata) fin dal principio (in pria), la società umana (l'umana compagnia), ritiene (estima) gli uomini tutti alleati fra loro (tutti fra sé confederati), e tutti abbraccia con amore autentico (vero amor), prestando e aspettando valido e sollecito (pronta) aiuto (aita) negli alterni pericoli (perigli) e nelle sofferenze (angosce) della guerra che li accomuna [contro la natura]. E armare la mano (armar la destra) contro le offese degli [altri] uomini e porre ai vicini (al vicino) insidie (laccio) e ostacoli (inciampo), reputa (crede) stolto così come (qual) sarebbe (fora) [sciocco] in un campo [di battaglia] circondato (cinto) da truppe nemiche (d'oste contraria – oste è latinismo), nel più violento (in sul più vivo) incalzare degli assalti, dimenticando i nemici (gl'inimici obbliando - latinismo), intraprendere (imprender) scontri feroci (acerbe gare) con gli amici, e seminare la fuga (sparger fuga) e fare stragi con la spada (fulminar col brando) tra (infra - latinismo) i propri guerrieri.
[145] Quando pensieri come questi (così fatti pensieri) saranno (fien), come furono (fur) [un tempo], evidenti (palesi) al popolo, e quel terrore (orror) che per primo strinse gli uomini (i mortali) in una alleanza sociale (in social catena) contro la natura malvagia (empia - personificazione), sarà (fia) ricondotto in parte da un vero (verace - latinismo) sapere (saper), allora l’onesto e (e… e…e - polisindeto) il leale (retto) rapporto civile (conversar cittadino), e la giustizia e la pietà (pietade), avranno [un ben] altro fondamento (altra radice) che non le fantasie (fole, significa favole) piene di presunzione (superbe, fa riferimento alle credenze religiose),  basandosi sulle quali (ove) la probità degli uomini (volgo - latinismo) sta solitamente (star suole), così come (quale) può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore (quel ch'ha in error la sede).

[158] Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
[167] E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente ; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz'alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
[181] o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

[158] Spesso (sovente) in questi luoghi (rive – si riferisce alle pendici del Vesuvio) desolati che la lava solidificata (flutto indurato) ricopre (veste - metafora) di scuro (a bruno), e sembra (par) che ondeggi, trascorro la notte (seggo la notte); e sul triste paesaggio (mesta landa) nel cielo limpidissimo (In purissimo azzurro) vedo (veggo) dall’alto brillare (fiammeggiar) le stelle, alle quali (cui) da lontano il mare fa da specchio, e [vedo] intorno (in giro) il mondo tutto brillare di luci (scintille) nell’aria serena (per lo vòto seren vòto è latinismo sta per vuoto).
[167] E poi fissando gli occhi su quelle luci (gli occhi a quelle luci appunto), che a essi (ch’a lor – riferito agli occhi) sembrano un puntino (punto - cioè piccolissime),  mentre sono tanto grandi (immense), tanto che (in guisa che) un punto, rispetto a loro (a petto a lor), sono in verità (veracemente) la terra e il mare; alle quali (a cui - alle stelle) è sconosciuto del tutto (sconosciuto è del tutto), non solo (non pur) l’uomo, ma [anche] questo pianeta (globo – la terra) dove l’uomo è nulla; e quando guardo (miro) quella specie di ammassi di stelle (nodi quasi di stelle – le galassie, le nebulose - similitudine), ancor più infinitamente (ancor più senz'alcun fin) distanti (remoti) che a noi paiono quasi nebbia, a cui non solo l’uomo e la terra, ma tutte insieme (tutte in uno) le nostre stelle, infinite nel numero e nella grandezza (mole), compreso il sole luminoso (con l'aureo sole insiem)
[181] o sono sconosciute (ignote), o così appaiono come loro stesse alla terra (come essi alla terra), un punto di luce nebbiosa (nebulosa); cosa sembri allora al mio pensiero, o umanità (o prole dell'uomo apostrofe e sineddoche)? E ricordando la tua condizione [infelice] quaggiù (il tuo stato quaggiù – l’infelicità dell’uomo sulla terra), di cui è testimonianza (fa segno) il suolo che io calpesto (Il suol ch'io premo) e [ricordando] poi dall'altra parte che ti credi di essere destinata (credi tu data) ad essere padrona (signora) e scopo ultimo (fine) dell’universo (al Tutto), e [ricordando] quante volte ti piacque fantasticare (favoleggiar), che in questo sconosciuto (oscuro) granello di sabbia (granel di sabbiametafora e iperbole), che ha il nome terra (il qual di terra ha nome), scendessero per causa tua (per tua cagion) i creatori  (autori – gli dei) di tutto l’esistente (dell'universe cose), e conversassero spesso (sovente) piacevolmente con i tuoi [simili](co' tuoi – i mortali) e che perfino (fin) il secolo attuale (la presente età), che per conoscenze e grado di civiltà (civil costume), pare superare tutte le età precedenti (sembra tutte avanzar), rinnovando dei sogni ormai ridicoli (i derisi sogni rinnovellando - si riferisce alle illusioni antropocentriche e finalistiche), reca insulto ai saggi (ai saggi insulta); quale sentimento (moto) dunque (allora) o quale pensiero infine (finalmente) assale il mio cuore  verso te, o infelice umanità (mortal prole infelice - apostrofe)? Non so se prevale il riso o la pietà.

[202] Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
d'un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
[220] di liquefatti massi
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là su l'estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
non avvien ciò d'altronde
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

[202] Come (Come…così…- similitudine) un piccolo frutto (pomo - latinismo), in autunno inoltrato (tardo autunno) la maturazione, senza il concorso di altra forza (senz'altra forza) fa cadere (atterra) proprio là (cui là), e cadendo dall’albero (d'arbor cadendo) schiaccia, annienta e sommerge (schiaccia, diserta e copre) di colpo (in un punto) i cari (dolci) nidi (alberghi) scavati nel molle terreno (cavati in molle gleba) da una colonia di formiche (un popol di formiche) con grande fatica (lavoro) e le costruzioni (l'opre) e le provviste (ricchezze) che quella gente laboriosa (l'assidua gente – le formiche - personificazione) aveva con lunga fatica accumulato a gara (adunate a prova) con previdenza (provvidamente) durante l’estate (al tempo estivo); allo stesso modo (così) piombando dall’alto, lanciata (scagliata) dalle viscere (utero) tuonanti [del vulcano] verso il (al) cielo più alto (profondo) il buio (notte) e la distruzione (ruina), di ceneri, di rocce laviche (pomici) e di pietre (sassi), miste a (infusa) ruscelli di lava (bollenti), oppure un’immensa piena
[220] di massi fusi (liquefatti), e di metalli e di sabbia (arena) infuocata, scendendo con violenza (furiosa) tra l'erba lungo il pendio della montagna (pel montano fianco), travolse (confuse), e (e…e - polisindeto) distrusse (infranse) e ricoprì (ricoperse) in pochi istanti le città che il mare bagnava (aspergea) là sulla costa più lontana (estremo lido): per cui (onde) su quelle [città] ora pascola (pasce) la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte (dall'altra banda) a cui le [città] sepolte (le sepolte) fanno (son) da base (sgabello - metafora) e il monte ostile (arduo monte – il Vesuvio - personificazione) sembra calpestare (quasi calpesta) con il suo piede (al suo piè) le mura cadute (prostrate).
La natura non nutre (non ha) più stima, nè maggiore attenzione (cura) per il genere umano (seme dell'uom) che per la formica, e se [avviene] che la strage è più rara in quello (quello - tra gli uomini) che nell’altra (nell'altra - tra le formiche), ciò non avviene per altra ragione (d'altronde) se non che (fuor che) l’uomo [ha] la sua stirpe (sue prosapie) meno feconda.

[237] Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell'ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall'inesausto grembo
su l'arenoso dorso, a cui riluce
di capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
[258] E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l'usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
[269] Torna al celeste raggio
dopo l'antica obblivion l'estinta
pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
che alla sparsa ruina ancor minaccia.
[280] E nell'orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s'aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
così, dell'uomo ignara e dell'etadi
ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

[237] Ben milleottocento anni trascorsero (varcàr - varcarono) dopo che (poi che) sparirono, sepolti (oppressi) dalla forza della lava infuocata (ignea forza – ignea è latinismo),  le centri abitati (i popolati seggi) e il contadino (villanello) intento alla cura dei vigneti, che a stento in questi campi la terra (zolla) arida (morta) e bruciata (incenerita) nutre, ancora alza lo sguardo timoroso (sospettoso) verso la sommità (alla vetta) funesta (fatal), che per nulla (nulla mai) divenuta (fatta) più mite, ancora sorge (siede - personificazione) tremenda,  ancora minaccia distruzione (strage) a lui ed (ed…ed - polisindeto) ai figli ed ai loro miseri averi (averi lor poverelli). E spesso il poveretto (meschino) trascorrendo (giacendo) tutta la notte insonne all’aria aperta (alla vagante aura) sul tetto della rustica abitazione (ostel villereccio) e sobbalzando (balzando) più volte, controlla (esplora) il corso del fronte lavico (temuto bollor) che si riversa dalle viscere (grembo - personificazione) inesauribili (inesausto) [del vulcano] sul pendio sabbioso (arenoso dorso - personificazione), al cui [riflesso] brilla (riluce) la marina di Capri, e (e…e - polisindeto) il porto di Napoli e Mergellina.
[258] E se lo vede avvicinare, o se nella profondità (nel cupo) del pozzo di casa (domestico pozzo) ode per caso (mai) l’acqua gorgogliare ribollendo (fervendo), subito (in fretta) sveglia (desta… desta - anafora) i figli, sveglia la moglie e fugge via, con quante più cose possono afferrare (rapir), e vede da lontano la sua abitazione di sempre (l'usato suo nido - metafora), e il piccolo campo, che fu per lui (gli fu) l’unica difesa (schermo) dalla fame, preda della lava (flutto rovente) che avanza crepitando, e inesorabile (inesorato) per sempre (durabilmente) si distende (si spiega) sopra di essi (sovra quei).
[269] Dopo l’antico oblio (l'antica obblivion - latinismo) la distrutta (estinta) Pompei torna alla luce del sole (al celeste raggio), come uno scheletro sepolto (similitudine) che (cui) il desiderio [di tesori] (avarizia) o la pietà restituisce (rende) all'aria aperta (all'aperto), [togliendolo] dalla terra (di terra); e dal foro deserto il visitatore (il peregrino) in piedi (diritto) tra (infra) le file dei colonnati spezzati (mozzi), contempla da lontano (lunge) la doppia cima (bipartito giogo - il Vesuvio e il monte Somma) e la vetta fumante (cresta fumante) che ancora minaccia le rovine sparse intorno.
[280] E nell’orrore della notte che cela ogni cosa (secreta) per i vuoti teatri, per i templi devastati (deformi – deturpati dalla lava) e per le case distrutte (rotte), dove il pipistrello nasconde (asconde) i piccoli (i parti), come una fiaccola lugubre (sinistra face similitudine – face è latinismo) che tenebrosa (atra) si aggiri per i palazzi disabitati (vòti palagi), corre il bagliore della lava mortale (funerea),  che in lontananza (di lontan) rosseggia nelle tenebre (per l'ombre) e colora i luoghi tutto intorno (lochi intorno intorno tinge).
Così, ignara dell’uomo, alle età (etadi) che egli chiama antiche, e del succedersi (del seguir che fanno) dei nipoti ai progenitori (dopo gli avi i nepoti), la natura resta (sta) sempre giovane (ognor verde), anzi procede per un cammino così lungo ch'ella sembra star ferma (che sembra star – perché evolve molto lentamente). Cadono (caggiono) intanto i regni, si succedono popoli (genti) e lingue diverse (linguaggi): ella non lo nota (nol vede) e l'uomo si vuole arrogare (s'arroga) il vanto di essere eterno (d'eternità).

[297] E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell'uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

[297] E tu, o flessibile ginestra (lenta ginestra apostrofe e personificazione – da Virgilio nelle Georgiche: lentae genistae), che adorni con [i tuoi] cespugli profumati (selve odorate) queste campagne desolate (dispogliate) anche tu (anche tu similitudine – paragona la ginestra al poeta) presto soccomberai al crudele potere (possanza) della lava (sotterraneo foco) che ritornando al luogo già conosciuto (già noto -  già devastato altre volte) stenderà il suo mantello (lembo) duro (avaro) sulle tue tenere (molli) selve [di ginestre]. E piegherai senza opporre resistenza (non renitente) il tuo capo innocente sotto il peso della lava (fascio mortal): ma senza averlo piegato (ma non piegato - riferito a capo v.306) fino allora inutilmente (indarno) per supplicare vigliaccamente (codardamente supplicando) davanti (innanzi) all'oppressore futuro;  ma non eretto con folle orgoglio (forsennato orgoglio) verso (inver) le stelle o nel deserto, dove sia (e…e… - polisindeto) la dimora sia la nascita (e la sede e i natali) hai avuto (avesti) non per tua volontà (per voler), ma per caso fortuito (fortuna); ma più saggia, ma tanto meno insensata (inferma) rispetto all’uomo (dell'uom), in quanto non credesti che la tua fragile (le frali) stirpe (stirpi) fosser divenuta (fatte) immortali o per merito tuo (da te) o del destino (fato).




Epigrafe

L’epigrafe è una frase tratta dal Vangelo di Giovanni.
Pur essendo tratta da un testo sacro, la sua lettura va fatta in chiave materialistica e antireligiosa infatti:

  • la luce che per l’evangelista Giovanni è la parola divina, per Leopardi è il lume della ragione che porta alla consapevolezza dell’infelicità dell’uomo sulla terra e della sua solitudine;
  • Le tenebre rappresentano il buio in cui l’uomo preferisce vivere per non prendere coscienza della realtà delle cose, troppo dolorosa.

Il motivo della luce che si oppone alle tenebre, in cui gli uomini preferiscono vivere, affermato nell’epigrafe, pervade tutto il canto ed incita alla lotta collettiva contro la natura matrigna. Ma è una lotta che gli uomini possono condurre solo se liberi da miti, illusioni religiose e ideologie.


Riassunto del testo

In sintesi: il testo descrive come la ginestra, fiore fragile e delicato, coraggiosamente riesca a ricresce in territori desolati, come avviene per esempio sulle pendici del Vesuvio, anche se destinato a soccombere continuamente ad ogni eruzione. La fragilità della ginestra diviene simbolo della fragilità della condizione umana sottoposta alla legge crudele della natura che interessata solo a se stessa non bada al destino del genere umano. Per il poeta di fronte alla smisurata potenza della natura l’uomo dovrebbe orgogliosamente prendere atto della sua fragilità e rassegnarsi alla sua condizione, così come fa l’umile pianticella della ginestra, e non credersi invece superbamente padrone del proprio destino e della natura.

Più nel dettaglio:

  • Prima strofa, versi 1-51:
    • i primi versi fino al numero 16 vertono sulla descrizione del paesaggio vulcanico e sulla ginestra, delicato fiore che cresce sulle pendici del Vesuvio e che il poeta ha già visto crescere in luoghi tristi e solitari della campagna romana;
    • Dove adesso è un paesaggio in rovina al tempo dell’antica Roma vi era un paesaggio rigoglioso di campi coltivati e abitato dall’uomo con belle ville, giardini e palazzi.
    • L’immagine delle rovine smentisce dunque la visione dominante di fiducia nel progresso e nel futuro.  
  • Seconda strofa, versi 52-86:
    • Leopardi polemizza contro le scelte filosofiche della cultura dominante, contro le certezze di quello che Leopardi ha definito secol superbo e sciocco. Leopardi rimprovera il pensiero dominante di aver interrotto la tradizione razionalistica che con il Rinascimento e il Settecento aveva risollevato il mondo dalla decadenza medievale.
    • Conclude la strofa con la condanna dell’antropocentrismo e richiamando quanto affermato nella citazione evangelica con cui inizia la poesia, definendo furbo o folle colui che, ingannando sé stesso e gli altri, in buona fede o in cattiva fede, sostiene la natura divina dell’uomo.
  • Terza strofa, versi 87-157:
    • L’uomo può assumere comportamenti stolti, negando la realtà considerandosi dominatore del mondo, o nobili, affrontando la realtà della sua fragilità e infelicità;
    • Il comportamento delle ideologie dominanti nell’epoca di Leopardi è quello della simulazione, a parere del poeta, in quanto promettono felicità sconosciute attraverso il progresso. Contro tali promesse Leopardi ricorda le fragilità dell’uomo da sempre soggetto inerme di disastri naturali (maremoti, terremoti ecc.) ed epidemie.
    • L’unico possibile riscatto per l’uomo dalla sua misera condizione è dato dall’adesione a un ideale di fraternità con gli altri uomini contro la natura matrigna;
  • Quarta strofa, versi 158-201:
    • La visione degli spazi cosmici sterminati suggerisce la piccolezza, marginalità e precarietà della condizione umana e rivela l’assurdità e improbabilità che una qualche divinità possa occuparsi dell’uomo;
  • Quinta strofa, versi 202-236:
    • Leopardi insiste sulla immagine della natura matrigna e attraverso la similitudine tra uomini e formiche dimostra come la natura abbia lo stesso comportamento nei confronti di tutti i viventi, dimostra dunque la uguale posizione dell’uomo e di tutti gli animali rispetto alla natura e al destino;
  • Sesta strofa, versi 237-296:
    • Inizia ricordando l’eruzione che diciotto secoli prima (79 d.C.) ha portato alla distruzione di Pompei ed Ercolano, evento che può ripetersi ed il poeta porta l’esempio di una famiglia povera di contadini a cui la lava ha devastato la casa e il campo che rappresentava l’unica fonte di sostentamento. Ancora una volta il poeta mette in rilievo la insensibile crudeltà delle vicende naturali ed esprime pietà e tenerezza per la sorte di questa famiglia, esempio della fragilità umana.
    • il poeta afferma che nonostante siano passati diciotto secoli dalla distruzione di Pompei, ora tornata alla luce grazie agli scavi archeologici (iniziati nel 1748 e proseguiti oltre i tempi di Leopardi), al visitatore delle rovine della città sembra che sia passato pochissimo tempo per quanto il vulcano gli appare ancora minaccioso. La scia luminosa della lava che scende lungo il pendio è ancora visibile nell’oscurità della notte e ricorda all’uomo quanto la natura continui la sua lenta evoluzione ignorando il destino del genere umano che cambia in continuazione nonostante la sua pretesa di essere eterno.
  • Settima e ultima strofa, versi 297-317:
    • Leopardi conclude ritornando a focalizzarsi sulla ginestra, immagine con cui ha dato avvio alla lirica (circolarità). Il poeta ne spiega il significato allegorico:
      • La ginestra resiste e lotta contro la distruzione abbellendo e profumando i luoghi devastati dalla morte;
      • Combatte stoicamente la natura, con dignità, senza implorare pietà e senza inutili impennate d’orgoglio;
      • Non cerca consolazione in folli affermazioni di immortalità.
    • L’uomo illuminato è colui che ha umiltà e saggezza, colui che, come la ginestra, prende atto della sua condizione di infelicità, non la aggrava con odi fratricidi ed anzi cerca di stabilire un rapporto di solidarietà con gli altri uomini, unica risposta che, nella titanica lotta contro la natura, potrebbe dare senso all’esistenza umana.




Analisi del testo della poesia

La Ginestra rappresenta una sorta di testamento ideale di Leopardi, in cui il poeta riflettendo sul senso e sul destino dell’uomo rivolge un invito agli uomini affinchè prendano consapevolezza della realtà, ovvero della propria infelicità, sulla base della quale fondare un nuovo modello di società solidale contro la natura matrigna che ne è la causa.
Nel canto convivono parti polemiche, dalla venatura sarcastica, e parti liriche.
La poesia ha struttura circolare in quanto l’ultima strofa riprende l’immagine della ginestra da cui ha avuto inizio la lirica.


  • L’inizio del canto (i primi 17 versi) mette subito al centro dell’attenzione i due referenti fondamentali del testo:
    • Il desolato e brullo paesaggio vulcanico;
    • La ginestra, immagine consolatoria che contrasta con la distruzione che la circonda, sia sul Vesuvio che nel paesaggio romano.
  • Il poeta riflette quindi, partendo dal confronto tra il paesaggio in rovina attuale del Vesuvio e lo splendore che al tempo dell’antica Roma caratterizzava quegli stessi luoghi (prima dell’eruzione del 79 d.C.):
    • sulla fragilità della condizione umana;
    • e sulla crudele indifferenza della natura.
  • Nei versi seguenti si sviluppa la polemica contro la cultura dominante. Il secolo diciannovesimo viene personificato e considerato secolo superbo e sciocco in quanto basato sull’idea del progresso, attraverso il quale vuole dominare la natura.
  • Leopardi utilizza l’allegoria dell’uomo povero e malato per illustrare i due diversi comportamenti attraverso reagire alla condizione di infelicità:
    • In maniera nobile mostrandosi com’è veramente;
    • In maniera stupida simulando una ricchezza e una prestanza fisica che in realtà non ha.
  • L’allegoria è metafora della condizione dell’umanità intera che si trova a dover scegliere tra le stesse alternative. L’atteggiamento dignitoso e nobile del singolo individuo è quello di prendere atto della realtà delle cose e attribuirne la responsabilità a colei che da sempre si dimostra nemica degli uomini, ovvero: la natura;
  • Dal caso del singolo individuo il poeta risale alla delineazione di un modello sociale collettivo che partendo dalla consapevolezza che la natura è la causa dell’infelicità naturale degli esseri viventi, tutti gli uomini sono portati ad allearsi contro di essa per costruire una civiltà basata su virtù civili scaturite dall’identità di specie e dal comune interesse.
    Le virtù civili a cui Leopardi fa riferimento sono quelle elencate ai versi 151-153:
    • Onestà;
    • Lealtà;
    • Senso della giustizia;
    • Solidarietà (la pietade del verso 153 che si ricollega alla pietas: comprensione tra esseri umani).
    Il bisogno di socialità tra gli uomini può ora avvalersi delle moderne conoscenze scientifiche anziché su credenze, superstizioni e ipotesi fantastiche.
  • L’osservazione del paesaggio desolato delle pendici del Vesuvio in contrasto con lo splendere del cielo stellato che lo sovrasta porta il poeta a riflettere sul mistero della grandezza dell’universo e su cosa rappresenta l’uomo. Riflessione che sfocia nella considerazione di quanto l’uomo sia piccolo e insignificante, completamente solo e marginale nell’universo. L’uomo rappresenta una minima parte della terra che a sua volta rappresenta una minima parte del sistema solare che rimane sperduto e ignoto tra tanti altri sistemi solari. Emergono da questa riflessione due aspetti del pensiero leopardiano:
    • La sua visione antireligiosa;
    • La critica dell’antropocentrismo.
  • La lunga similitudine, che ha inizio al verso 202, continua al v.212, ”come…così…” e si conclude al verso 230, verte sulla fragilità dell’uomo così come di ogni altro essere vivente al cospetto della natura. La similitudine è tra l’uomo e la formica e vuol dimostrare che la natura mantiene lo stesso comportamento nei confronti dell’uomo e nei confronti di altre forme di vita che il poeta esemplifica nella formica, infatti:
    • La mela che cade dall’albero uccide molte formiche e distrugge quanto queste hanno costruito con tanta fatica;
    • Così succede al genere umano quando un avvenimento naturale, come un’eruzione, in un attimo distrugge l’uomo e ciò che faticosamente egli si era costruito.
    Ogni pretesa antropocentrica viene dunque, ancora una volta, smentita.

Ginestra: canto polemico

In diversi punti la lirica polemizza contro la cultura dominante e le credenze religiose (le superbe fole) che vedono l’uomo come centro del mondo (antropocentrismo) e finalità del Tutto. Lungo tutta la lirica emergono i toni ironici e sarcastici della polemica ed in particolare:

  • Nella chiusura della prima strofa, verso 51: le magnifiche sorti e progressive, Leopardi critica, facendo ricorso all’ironia, le ideologie dominanti all’epoca che nutrono una cieca fiducia nel progresso.
  • Nel prosieguo Leopardi apostrofa il secolo diciannovesimo come secol superbo e sciocco con l’intenzione di accusare di mistificazione le ideologie ottocentesche basate su un’idea del progresso capace di dominare la natura e affermare il predominio dell’uomo;
  • A queste ideologie il poeta contrappone il pensiero illuminato, la luce, del secolo precedente, il Settecento, capace di guardare in faccia la realtà, consapevole della marginalità dell’uomo e della sua storia rispetto al cosmo;
  • Leopardi rivolge una critica anche all’egoismo individualistico che caratterizza le società moderne. Il verso 132: con vero amor, porgendo, lo sottolinea facendo riferimento all’amore autentico, cioè all’amore generoso rivolto al prossimo, che si contrappone all’amore egoistico e interessato, l’unico secondo Leopardi di cui gli uomini moderni siano capaci.
  • Nei versi 237/268 il tema di fondo verte sulla relatività del tempo storico. Il ripresentarsi, anche nel presente, dei fenomeni naturali di distruzione dimostra che la natura segue impassibile il proprio corso disinteressandosi della sorte dell’uomo e dimostra l’inconsistenza dell’idea del progresso, nonché l’inutilità degli sforzi umani di darsi una storia e di credersi immortali;
  • Nei versi 269/296 la forza della natura risiede nel suo trasformarsi così lentamente rispetto alla brevità delle vicende umane che rendono l’uomo del tutto marginale e di poca importanza. In questo confronto tra civiltà e natura Leopardi muove una critica alle filosofie che mirano a sottolineare il primato dell’attività umana non tenendo conto della sua subordinazione alle leggi materiali, alla natura.

Tematiche

Il tema centrale della lirica è la denuncia della infelicità costitutiva e non mutabile della condizione umana e la critica delle illusioni ottimistiche basate sull’apologia del progresso tecnologico-scientifico e sulle mitologie consolatorie della religione.
È un errore negare lo stato delle cose e far riferimento a consolazioni fragili e inconsistenti, la realtà è piena di dolore e di rischi. Avere tutti consapevolezza della infelicità e della fragilità della propria condizione esistenziale consente agli uomini di individuare il vero nemico da combattere, la natura, contro la quale solo la solidarietà e il soccorso reciproco può portare ad una riduzione del dolore e dei rischi anche se non determinerà mai il loro annullamento.


Il paesaggio

L’ambientazione è quella del paesaggio desolato del Vesuvio che rappresenta il luogo-simbolo della condizione umana sulla terra ed il Vesuvio, monte Sterminator, è il simbolo della natura matrigna, crudele e sterminatrice. Il paesaggio naturale è rappresentato in maniera antiidillica.
Il poeta ricorre spesso alla figura retorica della personificazione per descrivere gli elementi del paesaggio oggetto della lirica, il Vesuvio e la ginestra, che assumono in tal modo atteggiamenti e sentimenti propri degli uomini.


La ginestra

La scelta della ginestra da parte di Leopardi è legata al fatto che questo fiore rappresenta la tenera resistenza della vita di fronte alla forza distruttiva della natura. La ginestra è un fiore che ha la capacità di sopravvivere nelle condizioni naturali più impervie, in questa lirica la sua funzione è quella di rappresentare la coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza nei confronti della natura matrigna.
La ginestra di Leopardi assume un carattere eroico: delicata e tenace, cresce sulle pendici del vulcano, attende senza illusorie prospettive di durata di essere distrutta dalla lava ed è consapevole e pronta a piegare il suo capo innocente sotto la forza della natura, senza viltà, senza orgoglio ingiustificato, senza mai reputarsi al centro dell’universo.
La ginestra rappresenta la fragile condizione umana e diventa altresì simbolo dell’atteggiamento di Leopardi verso la vita, entrambi rassegnati e consapevoli della loro condizione esistenziale, ed entrambi dignitosamente impegnati a reagire dando conforto alla desolazione della vita, la ginestra attraverso il suo profumo ed il poeta attraverso la sua poesia.





La civiltà della solidarietà

Leopardi delinea una nuova civiltà di uomini fra loro confederati basata su una nuova solidarietà che nasce dalla conoscenza del vero, in cui tutti gli uomini concordando sulla infelicità della propria condizione e sull’ostilità della natura nei confronti degli uomini, stabiliscano un’alleanza tra di loro per soccorrersi reciprocamente, considerato il fatto che l'inimicizia umana fa il gioco del nemico, cioè della natura.
Il riferimento alla necessità di associarsi è chiaramente derivante dalla dottrina di Rousseau (vedi in particolare i vv. 127/129) che sostiene che il meccanismo che ha dato origine alla civiltà è stato appunto la necessità di un’alleanza tra uomini per aiutarsi l’un l’altro.


Analisi metrica

La ginestra è una canzone libera composta da sette lunghe strofe di lunghezza irregolare (183 endecasillabi e 134 settenari variamente alternati) per un totale di 317 versi, endecasillabi e settenari. Alcune strofe sono estremamente estese e complicate, ciascuna è chiusa da una rima e da un endecasillabo.
Presenti anche rime al mezzo, gli enjambements e numerose figure retoriche.
Prevalgono periodi lunghi, a volte lunghissimi, in cui si sviluppano svariare frasi subordinate. Toni a volte accesi a volte pacati si susseguono in sintonia con le diverse tematiche svolte.
La musicalità del verso è stata definita da alcuni critici (Binni) di tipo sinfonico in quanto si intrecciano e si contrappongono vari temi e vari ritmi, con tempi lenti e pacati che possono sfociare in ritmi più incalzanti e decisi.
Termini dal suono aspro (per es.: impietrata, contorce, serpe, cavernoso) connotano il paesaggio brullo e arido su cui cresce la ginestra che viene invece descritta con parole dal suono dolce e musicale (per es.: fior gentile, di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola).



Figure retoriche

Approfondimento di alcune figure retoriche:
Anastrofi - sono molto numerose e caratterizzano tutta la lirica. Le anastrofi determinano una costruzione diversa del periodo rispetto alla disposizione della prosa, si riprende spesso la costruzione latina, sono tantissime, vedi per es.:

  • tuoi cespi solitari intorno spargi, v.5 – complemento oggetto prima del verbo;
  • de' tuoi steli abbellir l'erme contrade, v.8
  • di tristi / lochi e dal mondo abbandonati amante, vv.14-15
  • e d'afflitte fortune ognor compagna,v.16
  • che sotto i passi al peregrin risona, v.20
  • dove s'annida e si contorce al sole / la serpe, vv.21-22
  • dove al noto / cavernoso covil torna il coniglio, vv.22-23
  • agli ozi de' potenti / gradito ospizio, vv.28-29
  • fulminando oppresse, v.31
  • e quasi / i danni altrui commiserando, vv.34-35
  • al cielo / di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola, vv.35/37
  • colui che d'esaltar con lode / il nostro stato ha in uso, vv.38-39
  • del ritornar ti vanti, v.57
  • e procedere il chiami, v.58
  • padre ti fece, v.60
  • ….ecc.

Allitterazione

  • cavernoso covil torna il coniglio, v.23 – l’allitterazione in c sottolinea lo squallore dei luoghi una volta fiorenti.

Anafora

  • fur...fur...fur..., vv.24-27-29 – la funzione di questa anafora è di sottolineare e opporre alla desolazione il ricordo dello splendore delle città antiche.

Antitesi

  • Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, / Cui di lontan fa specchio / Il mare, vv. 163/165 – si contrappongono stelle e mare;
  • sembrano un punto, / e sono immense, vv.169-169.

Chiasmi

  • povero stato e membra inferme, v. 87 – aggettivo + sostantivo /sostantivo + aggettivo;
  • madre è di parto e di voler matrigna, v.125 – nome + compl. specificazione / compl. specificazione + nome.

Iperbati

  • E la possanza /qui con giusta misura / anco estimar potrà dell'uman seme, vv.41/43;
  • dipinte in queste rive / son dell'umana gente / magnifiche sorti e progressive, vv.49/51 - la citazione proviene dalla dedica che il cugino del poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni Sacri ed è diventata proverbiale per alludere ad ogni facile fiducia nel futuro;
  • che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, vv.54/56;
  • ma il disprezzo piuttosto che si serra / di te nel petto mio, / mostrato avrò, vv.65/67;
  • con lungo affaticar l'assidua gente, v.209;
  • d’un popol di formiche…/…schiaccia, diserta e copre, v.211;
  • Notte e ruina, infusa, v.216;
  • che il mar là su l'estremo / lido aspergea, vv. 223-224;
  • corre il baglior della funerea lava, v.286;
  • quanto le frali / tue stirpi non credesti /o dal fato o da te fatte immortali, vv.315/317.

Iperbole

  • Che un punto a petto a lor son terra e mare / veracemente, vv.170-171.

Similitudine

  • come sepolto / scheletro, vv.271-272;
  • come sinistra face, v.284.





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