RIASSUNTO
Il capitolo descrive l’arrivo dei deportati nel campo di Buna-Monowitz, vicino ad Auschwitz.
L’autocarro con i prigionieri si ferma, dopo un breve viaggio di una ventina di minuti davanti ad un cancello con la scritta “Il lavoro rende liberi” (Arbeit macht frei).
I deportati vengono fatti scendere ed entrare in una camera “vasta e nuda”, poco riscaldata e con un rubinetto dal quale non si può bere, in quanto l’acqua è inquinata. I prigionieri sono assetati, dopo quattro giorni di viaggio in cui non gli è stato dato nulla da bere, è una vera tortura. E’ “l’inferno”.
Nella stanza entra infine una SS (un soldato nazista) che inizia a dare ordini in tedesco, tradotti da un interprete che fa parte del gruppo dei deportati: “Bisogna mettersi in fila…, spogliarsi…, togliersi le scarpe..." Viene raccomandato di fare attenzione di non farsi rubare le scarpe ma poi tutte le scarpe accumulare in un angolo vengono scopate via e mescolate in un mucchio.
Quattro uomini con rasoio, pennelli e tosatrici, vestiti con pantaloni e giacche a righe con un numero cucito sul petto entrano e radono e tosano tutti. I deportati, tutti nudi e tosati, vengono portati in una sala docce fredda in cui rimangono per un certo lasso di tempo con i piedi immersi nell'acqua senza che succeda nulla. E allora cominciano a domandarsi che sarà di loro, dove sono gli altri, le donne, i bambini, se mai li rivedranno, perché vengono fatti stare tutti nudi in quella stanza, perché non gli vengono date spiegazioni. Vengono zittiti con brutalità dal maresciallo delle SS attraverso la traduzione dell’interprete (anch’egli un deportato) a cui le parole cattive che è costretto a tradurre storcono la bocca in una smorfia “come se sputasse un boccone disgustoso”.
Tutte queste operazioni avviliscono e mortificano i prigionieri e sono volte ad annullare l’umanità dei deportati già al loro arrivo al campo di detenzione. Entra nella stanza un detenuto con la divisa a righe che con un italiano stentato e con accento straniero spiega ai deportati che si trovano nel campo di lavoro di Monowitz in una fabbrica di gomma che si chiama la Buna che dà il nome al campo, che presto gli verrà fatta la doccia e la disinfezione e gli saranno dati scarpe e vestiti come i suoi e che tutti dovranno lavorare nella fabbrica. L’uomo risponde alle domande che gli vengono poste, ma non a tutte, e fa sapere che è entrato lì di nascosto perché “ha un po’ di cuore” e perché gli sono simpatici gli italiani.
Egli fugge appena sente il suono di una campana. Dalle docce inizia allora a scorrere acqua bollente, ma subito dopo tutti vengono cacciati con urla e spintoni nella camera vicina, che è gelida e gli vengono forniti stracci e scarpacce. I deportati raggiungono, infine, nudi correndo nella neve un’altra baracca dove viene loro concesso di vestirsi.
Primo Levi fa una riflessione sull'aspetto miserabile dei suoi compagni e suo, si pone l’interrogativo se possano definirsi uomini questi prigionieri privati di tutto e resi incapaci di difendersi e reagire.
L’opera di annientamento di ogni forma di dignità fisica e morale dei prigionieri viene completata negando loro anche il nome sostituito da un numero tatuato sul polso sinistro. Il nome di Primo Levi è adesso: 174 517, e solo mostrando questo numero egli può ricevere pane e zuppa.
A fine della prima lunghissima giornata i prigionieri vengono infine radunati e contati in un vasto piazzale al centro del campo dove rimangono poi in sosta in piedi per un’altra ora finchè, accompagnati dalla musica allegra di una fanfara che suona Rosamunda ed altre marce, arrivano nel piazzale anche i deportati che fino allora erano stati al lavoro, camminando “come fantocci rigidi fatti solo di ossa”.
Il primo contatto di Levi con gli altri prigionieri del campo è con un giovanissimo ebreo-polacco, Schlome, sedicenne, già recluso da tre anni, che gli pone alcune domande e gli raccomanda di resistere alla sete e non bere fino alla sera.
Il capitolo descrive quindi la struttura e la disposizione dei diversi edifici del campo. Tutti i prigionieri, gli Haftlinge, sono vestiti a righe ma vi è una gerarchia che distingue tre tipologie di prigionieri:
- i criminali, identificati con un triangolo verde cucito sulla giacca,
- i politici che invece hanno un triangolo rosso,
- e gli ebrei, che sono la maggioranza, ed hanno la stella ebraica rossa e gialla come segno di riconoscimento.
Nel campo vigono regole ferree e complicate a cui attenersi. Queste regole, apparentemente assurde, sono volte a privare con ferocia i prigionieri della dignità umana. L’organizzazione del lavoro mira a sfruttare il più possibile e con metodo “scientifico” i deportati, chi non ce la fa è destinato a morire.
Levi da subito capisce che l’unico modo per sopravvivere è seguire le regole del campo, evitare questioni, rispondere sempre “Jawohl”, fingere sempre di aver capito e non fare mai domande, rimanere sempre all’erta, tenere sempre d’occhio le proprie cose e tenere conto che qualsiasi oggetto può essere utile.
In queste condizioni assurde di vita gli uomini si dividono tra pessimisti e ottimisti, ovvero tra:
- coloro che credono che ormai tutto sia perduto,
- e chi invece, nonostante le condizioni disumane di vita, continuano a sperare che ci sia una via di salvezza.
Il capitolo si chiude con una breve riflessione che spiega il titolo del capitolo. L’autore descrive come dopo solo quindici giorni di prigionia, egli si sia trasformato divenendo un'altra persona, una persona sul fondo, completamente annientata e rassegnata, preda perennemente dalla fame, capace di rubare, con le piaghe sul dorso dei piedi, il ventre gonfio, la pelle gialla.