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La pazzia di Orlando

Parafrasi e analisi

(Orlando furioso, canto XXIII, Ott. 100 - 113)

Ludovico Ariosto

· Pubblicato · Aggiornato ·

Antefatto

Orlando si stava battendo contro il saraceno Mandricardo quando il cavallo di questi si era imbizzarrito ed era fuggito nel bosco. Orlando si getta all’inseguimento ma quando arriva in una radura scopre che in quei luoghi avvenivano gli incontri amorosi tra Angelica e Medoro ed egli travolto dal dolore impazzisce.


TESTO

PARAFRASI

[100] Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.

[100] Lo strano percorso (corso) che fece il cavallo
di Mandricardo (Saracin) nel bosco privo di sentieri fece si che Orlando vagò per due giorni  invano (in fallo), senza trovarlo e senza trovare alcuna traccia del suo passaggio (spia).
Giunse a un ruscello che sembrava cristallo, sulle cui sponde fioriva un bel prato, bello (vago) e ornato con i colori della natura, e adorno di cespugli belli e tanti [il luogo ha tutte le caratteristiche del locus amenus].

[101] Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.

[101] Il mezzogiorno (merigge – qui va inteso come l’ora calda del mezzogiorno) rendeva gradita (grato) la brezza leggera (orezzo) alla mandria robusta (duro armento – che resisteva alle fatiche) e al pastore nudo; così che neanche Orlando non ebbe alcun fastidio (ribrezzo), [pur] avendo la corazza, l’elmo e lo scudo.
Qui (Quivi) Orlando entrò per riposare in mezzo [ai cespugli] e vi trovò una dimora (albergo) angosciosa e crudele, e un funesto (empio) soggiorno più [spiacevole] di quanto si possa dire, di quell’infelice e sfortunato giorno.

[102] Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.

[102] Guardandosi intorno vide incisi con scritte (scritti) molti alberelli sulla riva ombrosa.
Non appena (Tosto) ebbe gli occhi fermi e fissi (fitti - Anastrofe : inversione dell’ordine delle parole per mettere in rilievo lo sguardo di Orlando fisso sulle incisioni) fu sicuro essere stati scritti (esser di man) da Angelica (de la sua diva).
Questo [il boschetto in cui è] era uno di quei luoghi che ho già descritto [vedi canto XX, ottave 35-36], dove spesso la bella donna (la bella donna = Angelica), regina del Catai, veniva con Medoro (Medor – giovane saraceno di cui Angelica si era innamorata) dalla vicina (indi vicina – indi = di lì) casa del pastore.

[103] Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.

[103] [Orlando] vede [i nomi di] Angelica e Medoro intrecciati insieme centinaia di volte (con cento nodi legati insieme), in cento diversi luoghi.
Tante sono le lettere, tanti sono i chiodi con i quali Cupido (Amore) gli ferisce (fiede – dal verbo fiedere) e punge il cuore.
Va a cercare in mille modi [climax – dai cento nodi del verso n.103 qui si arriva ai mille modi] con il pensiero di non credere quello a cui, suo malgrado (suo dispetto), crede: si sforza di credere che sia un’altra Angelica ad aver scritto il suo nome sul quella corteccia (scorza).

[104] Poi dice:- Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette. -
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

[104] Poi dice: “Io conosco la grafia di questi caratteri (queste note): di questi ne ho visti e ne ho letti tanti.
Potrebbe essersi inventata (Finger) questo Medoro: forse mi ha dato questo soprannome (a me questo cognome mette)”.
Con tali pensieri (opinion) lontani dal vero (dal ver remote), ingannando sé stesso (usando fraude a sé medesmo), l’inquieto (malcontento) Orlando stette nella speranza che riuscì (seppe) a procurarsi (ir procacciando) da sé (si seppe a se stesso – costrutto irregolare tratto dalla parlata popolare).

[105] Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.

[105] Ma il crudele (rio) sospetto sempre più si riaccende e si rinnova quanto più egli cerchi di soffocarlo (spenger più cerca): come l’imprudente uccello (incauto augel) che si ritrova volando (aver dato di petto) in una ragnatela (ragna) o nel vischio, quanto più batte le ali e più prova a liberarsi, tanto più si impiglia (vi si lega stretto) [Similitudine: Ariosto usa questa similitudine, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio – XI 73-75, per descrivere il complesso stato d’animo di Orlando che si dibatte tra dubbi, certezze e sofismi]. Orlando giunge dove la montagna si incurva formando una grotta (s’incurva…a guisa d’arco = si incurva come un arco) sopra una limpida sorgente (chiara fonte).

[106] Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.

[106] Avevano ornato l’ingresso della grotta (l’entrata il luogo) edere e viti rampicanti (erranti) con i loro rami contorti (coi piedi storti).
Qui erano soliti nei giorni più caldi (al più cocente giorno), stare abbracciati i due felici amanti.
Avevano scritto i loro nomi dentro ed intorno [alla grotta] più che nei luoghi circostanti, alcuni con il carbone ed altri con gesso e altri erano incisi (impresso) con punte di coltelli.

[107] Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:

[107] Il triste conte (mesto conte) scese a piedi fino a quel luogo (quivi); e vide sull’ entrata della grotta tante parole, che erano state scritte dalla mano di Medoro, e sembravano [esser state scritte] proprio in quel momento (allotta).
Per raccontare il grande piacere che provò (con Angelica) nella grotta, aveva composto questa scritta in versi (questa sentenza in versi avea ridotta).
Io penso che fosse scritta nel suo linguaggio (in suo linguaggio = in arabo, lingua di Medoro), e nella nostra lingua il senso era questo (tale il senso):

[108] - Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:

[108] “O liete piante, verdi erbe, limpide acque, grotta (spelunca) riparata dal sole (opaca) e gradevole (grata) per la fresca ombra, dove la bella Angelica, figlia (che nacque) di Galafron, invano amata da molti, spesso nelle mie braccia giacque nuda; per i piaceri (commodità) che qui mi sono stati dati, io povero Medoro non posso ricompensarvi in altro modo, se non lodandovi in ogni momento (d’ognor):

[109] E di pregare ogni signore amante,
E cavallieri e damigelle, e ognuna
Persona, o paesana o viandante,
Che qui sua volontà meni o Fortuna;
Ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
Dica: benigno abbiate e sole e luna,
E de le ninfe il coro, che proveggia
Che non conduca a voi pastor mai greggia. –

[109] e pregando ogni signore che vi ha amata (amante), e cavalieri e damigelle ed ogni persona, o del posto (paesana) o forestiera (viandante), che capiti qui intenzionalmente (sua volontà meni) o per caso (Fortuna); che all’erba, all’ombra, all’ingresso (della grotta), al fiume e alle piante dica: vi siano favorevoli (benigno abbiate) il sole e la luna e il coro delle ninfe, che vi protegga (proveggia) facendo in modo che nessun pastore porti mai qui (a voi) il suo gregge [a rovinare tanta bellezza e pace] .”

[110] Era scritto in arabico, che ’l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

[110] Era scritto in arabo (arabico), che il conte capiva (intendea) così bene come fosse il latino [come la propria lingua]: tra le molte lingue che parlava bene (ch’avea pronte), il paladino conosceva benissimo quella; e gli evitò (schivò) più volte danni e vergogne (onte), quando si trovò tra il popolo saraceno: ma non si rallegri (ma non si vanti), se altre volte (la conoscenza dell’arabo) gli fu propizia; perché ora ne ricava un danno (ch’un danno or n’ha) tale da cancellare tutti i vantaggi ottenuti (scontargli il tutto).

[111] Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.

[111] Lesse tre, quattro, sei volte lo scritto quell’infelice, e pur cercando invano [di immaginare] che non ci fosse ciò che vi era scritto; gli risultava sempre più chiaro e facile (piano) [da comprendere]: ed ogni volta [che leggeva] si sentiva, in mezzo al petto afflitto, stringere il cuore con mano gelida. Alla fine rimase con gli occhi e con il pensiero fissi sulla pietra, uguale lui stesso alla pietra (al sasso indifferente = impietrito - chiasmo).

[112] Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.

[112] Fu allora sul punto di impazzire (per uscir del sentimento), tanto si abbandona (si lassa)  completamente in preda al dolore
Credete a chi lo ha provato su se stesso (n’ha fatto esperimento) che questo è il dolore (’l duol – si riferisce alla sofferenza d’amore) che supera (passa) tutti gli altri.
Gli era caduto il mento sopra il petto [stava a testa bassa], la fronte bassa era priva di baldanza; non poté avere (perché il dolore l’occupò tanto) né voce per i lamenti (querele) nè lacrime (umore) per piangere.

[113] L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

[113] L’impetuoso dolore (doglia), che voleva uscire con troppa fretta, [gli] rimase dentro. Così vediamo (veggiàn) restare l’acqua nel vaso (vase), che abbia largo il ventre e stretto la collo (la bocca); così ché, capovolgendo (nel voltar che si fa in su) la base, il liquido (umor) che vorrebbe uscire, tanto preme (s’affretta) e nella stretta apertura (via) tanto si ingorga (s’intrica), che a goccia a goccia esce fuori a fatica. [similitudine]










Riassunto:

Il paladino Orlando rincorrendo il saraceno Mandricardo giunge in una radura in cui si ferma per riposarsi, qui scopre vari indizi che gli rivelano il passaggio di Angelica e del suo amante Medoro, nei nomi incisi sul tronco degli alberi, messaggi scritti sulle pareti delle grotte. Egli cerca di illudersi che non sia così, cerca di ingannare se stesso, ma poi cede al dolore e alla pazzia.


Analisi:

Il primo piano in questa sezione del XXIII canto dell’Orlando Furioso rappresenta l’episodio chiave di tutto il poema, l’esplodere del dolore di Orlando per il tradimento di Angelica con Medoro che lo porterà alla follia. Questo episodio non casualmente delimita la metà dell’opera, infatti su un totale di 46 canti è nel ventitreesimo che Ariosto affronta il tema centrale della follia.
La radura rappresenta il locus amoenus e fa emergere per contrapposizione il contrasto con il tormento interiore del personaggio.
La pazzia che caratterizza il personaggio creato da Ariosto è una follia eccessiva e paradossale in quanto colpisce un cavaliere che dovrebbe invece in quanto eroe essere “savio” per eccellenza e si manifesta in un crescendo di veemenza. Alle radici di questa follia c’è il desiderio dell’uomo, soprattutto quello amoroso che lo porta a farsi trascinare dalle illusioni che gli impediscono di riconoscere le cose nella loro realtà.


Metrica:

Ottave (strofe di otto versi endecasillabi). Schema ABABABCC (primi sei endecasillabi a rima alternata e ultimi due a rima baciata).






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